In questo articolo scoprirete che:
  • Per risolvere una questione non basta pensare, bisogna comprendere con il cuore quello che si vuole
  • Da un punto di vista evolutivo il pensiero si è generato dal cervello emotivo, ed è proprio la mente emozionale che determina quali comportamenti adottare in situazioni critiche
  • Le scelte migliori si prendono quando si agisce d’istinto
 

Cosa lega mente e cuore?

Siamo abituati a pensare riguardo a quello che ci accade, piuttosto che sentire l’effetto che fa. Questo è il motivo per cui cercate sempre una spiegazione al verificarsi degli eventi, una giustificazione per i comportamenti tenuti da voi e dagli altri, una conferma alle congetture riguardo ai motivi che hanno provocato una data circostanza. Così per esempio, pensate che trovare la risposta al perché una relazione è andata male, vi faccia sentire sollevati. Nonostante ciò, il vostro stato d’animo rimane lo stesso. Se vi sentite tristi o arrabbiati per qualcosa che è successo, capirne le cause non vi fa passare la tristezza o la rabbia. Il pensiero deve essere ancorato all’emozione che suscita, ovvero finché vi domandate: “Perché la persona che amo mi ha tradito?” e rimanete agganciati soltanto alle ipotesi per le quali l’evento è accaduto, non siete in contatto con le emozioni che provate per essere stati traditi. Se invece vi chiedete: “Come mi sento rispetto a quello che è successo?”, molto probabilmente scoprirete che vi sentite arrabbiati e delusi, che avete perso la fiducia nel prossimo, che vi sembra di valere di meno e che ora vi sentite terribilmente insicuri. In questo modo potrete scegliere come comportarvi, imparare a farvi rispettare e non permettere che quello che vi ha ferito non accada di nuovo. Il solo pensiero rischia persino di farvi trovare delle giustificazioni all’accaduto e rimuginare inutilmente sul perché è successo, senza permettervi di comprendere cosa volete fare e come volete reagire per stare meglio.

Finché il pensiero resta a livello cognitivo e non passa dal cuore, non è utile al nostro benessere

Come terapeuta, spesso sento i pazienti dire che ‘vogliono capire perché le cose sono andate in un certo modo piuttosto che in un altro, per poi accorgersi che saperlo non li aiuta a stare meglio. Capire non basta. Bisogna ‘sentire’ quali emozioni suscitano le riflessioni che facciamo o le spiegazioni che ci diamo, e ‘capirle con il cuore’. Quando sappiamo che qualcosa è giusta con il cuore, la nostra convinzione è di un ordine diverso rispetto alle conclusioni cui giungiamo quando pensiamo con la mente razionale; si tratta di una certezza più profonda. Per esempio, riconoscendo uno stato d’animo come negativo si può fare qualcosa per modificarlo, in quanto sentirlo permette di volersene liberare e di trovare il modo per farlo. Nella psicoterapia la possibilità di verbalizzare uno stato d’animo, ovvero tradurre in parole ciò che si sente, consente di riappropriarsi delle emozioni e di operare un cambiamento. Perciò è di fondamentale importanza connettere quello che si prova con quello che si pensa. Ci sono casi, e in genere si tratta di quelli che riguardano le fasi più importanti della nostra vita, in cui la ragione, se non è coadiuvata dal sentimento, è cieca e priva di fondamento, in quanto le condotte che scegliamo di agire sono stabilite in base a ciò che desideriamo e non a ciò che pensiamo.

Da dove nascono i pensieri e le emozioni?

Il punto di vista evolutivo: Il nostro cervello è composto da una mente che pensa e da una mente che sente e ognuna riflette il funzionamento di circuiti cerebrali distinti. I centri cerebrali emozionali sono derivati strutturalmente dalla parte più primitiva del cervello: il tronco (https://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/tronco-encefalico.html), che regola il corretto funzionamento e l’appropriata reattività dell’organismo al fine di assicurarne la sopravvivenza. È da questo che nel tempo si è evoluta la neocorteccia (http://www.neuropsychology.it/voce_glossario.asp?idglossario=220), sede del cervello pensante, il quale, dunque, non solo si è sviluppato secondariamente a quello emozionale, ma si è originato da questo. Il cervello emozionale ha sempre avuto una funzione essenziale, in quanto inizialmente trovava sede nel lobo olfattivo, i cui neuroni recepivano quanto odorato classificandolo come: sessualmente disponibile; nemico o pasto potenziale; commestibile o tossico; e poi informavano l’organismo sulle rispettive condotte da adottare, ovvero se avvicinarsi o fuggire; inseguire; mordere o sputare. Evolvendosi, queste parti cerebrali iniziarono a stratificarsi intorno al tronco fino a circondarlo e a formare un anello, dal cui termine derivarono anche il nome di sistema limbico (http://www.stateofmind.it/2018/04/sistema-limbico-psicologia/) – dal latino ‘limbus’ che vuol dire anello -, il quale ha il merito di aver perfezionato quelle risposte che prima erano automatiche, rendendole mutevoli in base alle esigenze. Così se un tipo di cibo si era rivelato nocivo, la volta successiva poteva essere evitato discriminando il buono dal cattivo. L’aggiunta di ulteriori strati di cellule nervose permise la formazione della neocorteccia che, in quanto sede del pensiero, integra e comprende quanto recepito dai sensi e aggiunge ai sentimenti ciò che pensiamo intorno ad essi. Tuttavia l’una non può esistere senza l’altra, dato che, per esempio, il sentimento d’amore è determinato in gran parte dai centri del piacere che generano desiderio e alimentano la passione sessuale, ma se il sistema limbico non fosse connesso con la neocorteccia il legame affettivo non esisterebbe. Ma c’è di più: esiste un centro del sistema limbico, che è l’amigdala, anch’essa parte di quello che abbiamo chiamato cervello olfattivo o rinencefalo (http://www.italiasalute.it/dblog/articolo.asp?articolo=2184), la quale in certi momenti dichiara lo stato di emergenza imponendo il da farsi a tutto il resto del cervello, e innescando la reazione alcuni istanti prima che la neocorteccia, o cervello pensante, abbia compreso a pieno ciò che sta accadendo.

C’è è una parte del nostro cervello deputata specificamente a conferire un significato emozionale alle interazioni umane e agli eventi

I segnali in entrata provenienti dagli organi di senso consentono all’amigdala di analizzare ogni esperienza e discriminare l’effetto che fa quanto percepito, dunque se si tratta di qualcosa che si detesta e si preferisce allontanare o che si teme. Così l’individuo può reagire in base alle sensazioni recepite prima che quegli stessi input siano stati completamente registrati dalla neocorteccia, in quanto esiste un fascio di vie nervose che afferisce direttamente all’amigdala, percorrendo una via di trasmissione più breve rispetto a quella che giunge dalla neocorteccia. Questo è il motivo per cui ci sono delle reazioni più grossolane che ci spingono ad agire d’istinto, in quanto alla neocorteccia occorre maggior tempo di analisi della risposta, sebbene sia di gran lunga più raffinata di quella generata dall’amigdala. Per questo si possono avere delle reazioni emotive del tutto indipendenti dalla mente razionale, che possono formarsi senza alcuna partecipazione cognitiva cosciente. NELLE SITUAZIONI DI EMERGENZA SCEGLIAMO IN BASE A CIO’ CHE SENTIAMO E NON A CIO’ CHE PENSIAMO

Nelle situazioni di emergenza scegliamo in base a cioè che sentiamo e non a ciò che pensiamo

Ciò che permette di fuggire in una situazione di pericolo sono le sensazioni fisiologiche che forniscono informazioni su come stiamo. Così, sentire le gambe che tremano permette di avvertire la paura per poi mettersi a correre e scappare. Ciò vuol dire che non è la valutazione della situazione come rischiosa che induce la paura, bensì la paura stessa che permette di valutare il pericolo, in funzione di eventi fisiologici come il tremore, il battito cardiaco o la sudorazione. Infatti, finché non si percepisce il vissuto corporeo corrispondente, l’emozione non è sentita. Per esempio l’ira si sente nell’atto di stringere i pugni, la tristezza si avverte nella gola che si contrae, l’ansia si prova quando il respiro si accorcia. Charles Darwin (1809-1882) (http://www.treccani.it/enciclopedia/charles-robert-darwin/) sosteneva che “fino a quando lo stato d’animo non modifica lo stato fisico dell’organismo, non si può parlare realmente di emozione”.

In quanto espressioni uniche della propria percezione, le emozioni consentono di diventare consapevoli dell’appropriatezza dei propri interessi e di quello che si vuole

Le emozioni costituiscono la coscienza motivazionale che permette all’individuo di entrare in relazione con l’ambiente circostante. Anche se solitamente, dal punto di vista fisiologico, un’emozione sorge prima che l’individuo ne sia conscio, man mano che la sensazione si dipana nell’organismo, diventa sufficientemente percettibile da essere avvertita per esempio come agitazione piuttosto che come ansia. Infatti, come abbiamo visto, il segnale emotigeno non giunge direttamente alle aree neo-corticali, ma attraversa vari stadi di processamento ed elaborazione prima di giungere alla coscienza.

Le emozioni dunque sono meccanismi innati che mettono in moto comportamenti funzionali alla sopravvivenza, tarati su specifici elementi attivanti e orientati su specifici scopi.

Continua a leggere per scoprire che:
  • Riconoscere le emozioni è un’abilità fondamentale per condurre una vita soddisfacente
  • La psicoterapia insegna questa abilità, chiamata intelligenza emotiva
  • In una situazione di pericolo ci sono tre diversi modi di reagire. Riconosci il tuo
  • L’intelligenza emotiva consente di controllare e gestire sensazioni spiacevoli come la rabbia

Come riconoscere le emozioni. L’intelligenza emotiva

Albert Einstein fu giudicato tardo rispetto alle condizioni di maturità mentale dei suoi coetanei, forse a causa della sua dislessia o più semplicemente della sua timidezza, tanto che non riuscì a superare gli esami di ammissione al Politecnico di Zurigo al primo tentativo. Egli stesso attribuì lo sviluppo della teoria della relatività a questa sua lentezza, dicendo che pensando allo spazio e al tempo più tardi della maggior parte dei bambini, fu in grado di applicarvi un maggior impegno intellettuale. Giosuè Carducci fu bocciato in italiano, sebbene più tardi abbia fatto parte della commissione che bocciò, a sua volta, un’opera di Giovanni Pascoli. Carl Gustav Jung riportava dei pessimi voti in matematica, e nella sua autobiografia racconta di essere stato denigrato dai suoi insegnanti per una mancata vivacità intellettiva, malgrado il fatto che gli studi cui si dedicò per gran parte della vita trovassero fondamento proprio in questa disciplina. Gli esempi potrebbero continuare, per dire che coloro che sono stati bocciati a scuola non lo sono stati nella vita e che di contro persone con elevato Quoziente Intellettivo (https://it.wikipedia.org/wiki/Quoziente_d%27intelligenza) possono rivelarsi del tutto incapaci ad adeguarsi e a reagire alle vicissitudini della vita. https://www.youtube.com/watch?v=HPAgBcsLMwQ Daniel Goleman (1946) fa notare come il Quoziente Intellettivo contribuisce in ragione del venti per cento ai fattori che determinano il successo nella vita, mentre il restante ottanta per cento è determinato da altre variabili, che sono le attitudini emozionali. Si tratta dell’intelligenza emotiva, che determina quanto bene riusciamo a servirci delle nostre abilità. Esse comprendono la capacità di:
  • motivare se stessi e persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni;
  • controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione;
  • modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare;
  • riconoscere i propri sentimenti, comprendere quelli altrui e trattarli efficacemente;
  • essere empatici e andare d’accordo con gli altri;
  • sperare.
Gli individui che sono dotati di intelligenza emotiva si trovano avvantaggiati in tutti i campi della vita e si mostrano molto efficienti sia nell’ambito lavorativo che relazionale. Hanno maggiori probabilità di essere contenti, essendo in grado di adottare gli atteggiamenti mentali che alimentano la produttività, nonché di sfruttare le abilità cui attingere per avere successo e per sentirsi soddisfatti e competenti rispetto a ciò che fanno. Coloro che non riescono a gestire la propria vita emotiva, combattono battaglie interiori che finiscono per sabotare la capacità di concentrarsi sui loro obiettivi e di pianificare adeguatamente il futuro e dunque di realizzare i propri progetti. Esiste poi un’intelligenza detta interpersonale, così detta da Howard Gradner (1943), che implica anche attitudini a livello emotivo:
  • la predisposizione alla leadership;
  • l’abilità di alimentare relazioni e conservare le amicizie;
  • di risolvere conflitti;
  • di analisi o percettività sociale; che corrisponde alla capacità di comprendere gli altri e le loro motivazioni adottando modalità di interazione cooperativa.
Stiamo parlando di un tipo di intelligenza molto particolare, che consiste nella consapevolezza dei propri processi emotivi e nel formarsi un modello accurato e veritiero di se stessi adoperandolo efficacemente nella vita. Questa è la chiave per accedere alla conoscenza di sé sviluppando la capacità di ascoltare il proprio sentire e di restarvi in contatto, discriminare i sentimenti e assumerli come guida del proprio comportamento. Per lo sviluppo dell’intelligenza interpersonale è essenziale la recezione dei segnali di sentimento viscerali. Ogni qualvolta compare una sensazione viscerale, possiamo immediatamente abbandonare una certa strada o perseguire su di essa con maggior sicurezza, riducendo la gamma delle scelte disponibili a una matrice più maneggevole. La psicoterapia sviluppa l’intelligenza emotiva, in virtù del fatto che consente la soddisfazione interiore che un individuo prova quando la vita è in armonia con i propri sentimenti. In tal senso la psicoterapia è un mezzo per apprendere ad ascoltare i sentimenti, che, come abbiamo visto, influenzano in ogni momento il modo in cui le informazioni vengono elaborate e deputate alle diverse modalità di azione. Senza l’intelligenza emotiva è molto probabile che prendiate la decisione sbagliata riguardo a scelte importanti della vostra vita come la persona da sposare, il lavoro da fare, i progetti da realizzare. Questa abilità è parte integrante delle doti che consentono alle persone di riuscire bene negli aspetti pratici della vita, perché fondamentali per l’intuito e il buon senso, necessari a fare scelte consapevoli. Le eventuali carenze possono essere colmate o nutrite a patto che ci si impegni seriamente a cambiare e migliorare. Non è un caso quindi se Peter Salovey (1958), include nell’intelligenza emotiva l’autoconsapevolezza,  cioè la capacità di monitorare e comprendere le sensazioni, mantenendo una continua attenzione ai propri stati interiori nel qui ed ora.

Riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta è la chiave di volta dell’intelligenza emotiva

Infatti, le persone molto sicure di sé hanno una percezione certa di ciò che realmente provano riguardo a scelte di carattere personale e questo consente loro di prendere le decisioni giuste per la vita. Sull’autoconsapevolezza si fondano altre capacità:
  • di controllare le emozioni, che non coincide con la negazione di esse, quanto piuttosto con l’avere padronanza di sé anche qualora queste prendono il sopravvento sul proprio modo di pensare e di agire. Chi riesce ad avere reazioni emotive appropriate alla circostanza, si riprende molto più velocemente degli altri dalle sconfitte e sa affrontare con lucidità gli imprevisti della vita
  • di motivare se stessi, che consiste nel rimandare la gratificazione e reggere la frustrazione, destreggiandosi rispetto agli insuccessi e ai fallimenti che si potrebbero verificare nel corso del raggiungimento della meta
  • avere empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni degli altri e riconoscere le emozioni altrui in modo da essere sensibili alle loro esigenze e potervi rispondere, che è una dote di cui alcuni sono provvisti in modo più idoneo rispetto ad altri; saper gestire e controllare anche le emozioni altrui nelle interazioni sociali.
In un esperimento atto a valutare le differenze tra soggetti dotati di un elevato Quoziente Intellettivo e inidividui particolarmente dotati di intelligenza emotiva si è riscontrato che i soggetti maschi dotati di intelligenza emotiva sono più equilibrati e allegri di quelli prettamente intellettuali, non sono soggetti a rimuginazione del pensiero in modo ansioso, e si sentono a proprio agio con se stessi e con gli altri. Invece quelli più razionali, pur essendo produttivi e ambiziosi, sono molto più inibiti nella sfera dell’intimità e dei legami affettivi e hanno maggiori difficoltà nell’interazione sociale, risultando distaccati e poco espressivi dal punto di vista emotivo, nonché più inclini all’insoddisfazione.

È sempre l’intelligenza emotiva a “farci avere la meglio nella vita”, nel senso che contribuisce a farci avere un elevato livello di qualità della vita e a renderci felici

Per quanto riguarda le donne, i soggetti dotati di un profilo esclusivamente intellettivo si distinguono ancora più nettamente da quelli con intelligenza emotiva. Per cui le prime hanno una maggiore tendenza ai ripensamenti, sono afflitte da preoccupazioni generatrici di ansia e sensi di colpa e hanno difficoltà ad esprimere le emozioni in modo adeguato. Invece le seconde sono più sicure di sé nell’esprimere ciò che provano e hanno una buona capacità di adattamento alle situazioni di stress, oltre che una certa facilità nel fare conoscenze e intrattenere relazioni (Jack Block 1995).

Stili personali di reazione emotiva. Come reagite in una situazione di pericolo?

Provate ad immedesimarvi in questa situazione per riconoscere che tipi siete: Immaginate per un momento di trovarvi su un aereo, siete comodamente seduti su una poltrona in prima classe, l’aereo sta viaggiando in orario, sta seguendo la rotta e manca poco all’atterraggio. State tornando a casa dopo un lungo viaggio e tra poco riabbraccerete i vostri familiari che vi aspettano trepidanti all’aeroporto. E’ trascorso molto tempo dall’ultima volta che vi siete visti e non vedete l’ora di arrivare. Ma ad un tratto iniziate a sentire l’aereo sobbalzare in modo insolito mentre la voce del pilota vi invita ad allacciare tempestivamente le cinture di sicurezza e a raddrizzare lo schienale della poltrona restando fermi dove siete. Siete inghiottiti da una forte turbolenza, vi sentite sballottati di qua e di là. Ora, come vi state sentendo? E come vi comportate? Mantenete la calma o siete preoccupati e vi agitate sempre di più? Avete già visto la vostra vita scorrervi davanti o piuttosto credete che presto passerà? Dunque vi mettereste a guardare un film o leggere un libro ignorando la turbolenza ed escludendola dai vostri pensieri? Oppure tentereste di trovare la maschera sotto il sedile, maledicendovi per non aver prestato attenzione alle raccomandazioni fatte dal personale all’inizio del viaggio? Chi è molto attento alle proprie emozioni rischia di amplificarle in una situazione di emergenza come questa, mentre chi le ignora finisce col minimizzarle John D. Mayer (1947), distingue tre tipi di persone a seconda del modo in cui percepiscono le emozioni e di come reagiscono:
  • coloro che sono autoconsapevoli e che pertanto hanno una capacità sofisticata di vivere le emozioni, godono di buona salute psicologica e mantengono una prospettiva positiva della vita;
  • coloro che sono sopraffatti, cadono facilmente in balia delle emozioni, che, prendendo il sopravvento, li rendendono volubili e quasi fuori di sé;
  • i rassegnati, che accettano anche i sentimenti negativi senza tentare di modificarli.
Infine ci sono gli alessitimici, che non sono in grado di rispondere ad alcuna manifestazione di carattere emotivo, né sanno esprimere quello che provano, non perché manchino di sentimenti, ma perché li evitano e non sanno cosa sentono. In ogni caso, la vita emozionale è più ricca per chi le presta maggior attenzione.

Come utilizzare al meglio la nostra intelligenza emotiva. L’esempio della rabbia

Provare emozioni penose non è piacevole per nessuno, ma restare in equilibrio cercando di controbilanciarle con sentimenti positivi è la chiave per stare bene. I sentimenti negativi non vanno eliminati, ma ascoltati, per sostenerli e gestirli al meglio quando si presentano. Purtroppo però, molte delle nostre azioni non sono altro che tentativi di controllare i nostri stati d’animo per tenerli a bada e non sentirli quando irrompono, perché giudicati troppo intensi e difficili da gestire, piacevoli o spiacevoli che siano. Ma quando le emozioni indugiano oltre misura, diventa indispensabile saper riconoscere di che emozione si tratta e cosa la sta provocando, prima che diventi davvero ingestibile. Il problema è che quando si tratta di far fronte agli stati d’animo negativi più comuni come la collera, la tristezza o l’ansia, la maggior parte delle persone non ha gli strumenti per saperli gestire, perché non ha imparato a farlo. In tal senso la psicoterapia è un vero e proprio addestramento emotivo, che insegna a valersi di strategie per reggere le emozioni e trasfromarle in risorse. La rabbia ad esempio, sembra essere l’emozione più difficile da controllare, in quanto i pensieri risentiti che originano il monologo interiore che le fa da propellente, saturano la mente sommergendola con argomentazioni molto convincenti per indurci a dare sfogo all’impulso, oltre a dirottare la nostra attenzione sulle sensazioni che essa provoca, interferendo con i tentativi di distrarsi. Quello che bisognerebbe fare invece, è di usare l’autoconsapevolezza per considerare la situazione che l’ha generata da una prospettiva diversa, in modo da rivalutarla in termini più positivi. Questo atteggiamento possibilista mitiga la rabbia grazie a una maggiore apertura mentale e alla comprensione del suo vissuto. Tuttavia, se le riflessioni che facciamo sulle sue cause non sono accompagnate da un’azione concreta volta a risolvere il problema, e non associamo ad esse l’effetto che ci fanno, prolungano solo lo stato di malessere, diventando rimuginazioni distruttive. Infatti i pensieri vengono associati nella mente non solo in base al loro contenuto, ma a seconda dello stato d’animo, perciò un monitoraggio costante di quanto si sta provando è molto più significativo ed efficace di un monitoraggio del flusso dei pensieri. Ma c’è di più; uno dei suoi fattori scatenanti più arcaici sarebbe la sensazione di trovarsi in pericolo, in quanto le radici fisiologiche di questa emozione sono ravvisabili nella reazione di combattimento o fuga. Il segnale di pericolo può derivare sia da una minaccia fisica vera e propria, sia da una minaccia all’autostima o alla dignità della persona, quando si sente trattata in modo ingiusto, umiliata e non rispettata, o quando prova frustrazione se i tentativi di raggiungere un obiettivo falliscono. Pertanto non basta modificare il proprio punto di vista, bisogna sentire cosa proviamo quando siamo arrabbiati per poter esprimere la rabbia e affrancarsene. Tuttavia, talvolta non basta manifestarla, perché se la rabbia che proviamo è profondamente radicata e la sua origine molto antica, ogni evento atto a scatenare l’impulso la fa riemergere. Si tratta dunque di un processo che si autoalimenta in un escalation per la quale ogni stimolo rende la rabbia ancora più intensa di quella che sentivamo all’inizio. Così, venendo meno la guida cognitiva, la persona fa ricorso alle risposte più primitive. Lo stesso meccanismo è innescato dall’ansia e per questo vale la stessa strategia di aguzzare, affinare e addestrare l’autoconsapevolezza, in quanto solo facendovi attenzione, prestandogli ascolto e monitorando di volta in volta i nostri stati d’animo, essi si possono dominare. Naturalmente non basta, le emozioni negative si riescono a gestire purché l’individuo abbia le risorse interiori per farlo. La psicoterapia sviluppa e rinforza queste abilità, che, una volta apprese, migliorano di molto il nostro livello di qualità della vita anche quando proviamo emozioni molto intense.     Riferimenti:
  1. GOLEMAN, L’intelligenza emotiva, Bur RCS, Milano, 2005
     

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