quando la comunicazione è patologica e quando è sana

Livelli di comunicazione: affettiva e funzionale

La comunicazione è una modalità che gli individui hanno per interagire gli uni con gli altri e risente del tipo di atteggiamento con cui approcciamo all’altro e dell’intento con cui lo facciamo. Dunque bisogna anche tenere conto degli scopi per i quali comunichiamo, che possono essere: informare e ricevere informazioni; creare un contatto con l’altro; comprendere ed essere compresi; esprimere le proprie emozioni e capire quelle dell’altro; confermare o disconfermare le nostre aspettative. Pertanto diventa fondamentale chiedersi a che scopo comunichiamo.
La comunicazione nasce sempre con l’intento di soddisfare due bisogni fondamentali, che sono quello di relazionarsi con gli altri e quello di essere riconosciuti per il proprio valore, quindi comunicare è sia uno strumento che una necessità.

Proprio sulla base di questi due bisogni l’essere umano si trova a comunicare fondamentalmente per una necessità funzionale di scambio o ‘transazione’, inteso come persecuzione di un obiettivo e ottenimento di un vantaggio, e per una necessità emotiva di interagire per giungere a un contatto affettivo-relazionale.
Tuttavia, il più delle volte siamo insoddisfatti sia dell’aspetto pratico-funzionale che di quello affettivo-relazionale della comunicazione, perché in genere si fa confusione tra i due livelli e diventa difficile gestire entrambi contemporaneamente.
A proposito di questi due livelli comunicativi si può dire che esiste una Comunicazione Affettiva (di contatto), volta alla realizzazione di scopi relazionali e che si riferisce all’aspetto dei rapporti affettivi dell’esistenza. In questo ambito l’attenzione è più centrata sui vissuti  e sull’ottenimento di sensazioni rispetto a quanto l’altro ci dà in termini di percezioni, che sui risultati pratici e sul reciproco scambio; e una Comunicazione Funzionale (di scambio), dove quello che conta è ottenere dei risultati pratici rispetto alla situazione contingente e pertanto questo tipo di comunicazione necessita uno scambio di informazioni, discussioni e ragionamenti per negoziare accordi e risolvere problemi (P. Baiocchi, D. Toneguzzi, 2002).

Qualora si verifichi una bassa qualità del contatto a livello affettivo si incorre in giochi di potere, strumentalizzazione della comunicazione, strategie manipolative e assenza di contatto; quando invece si realizza una qualità di contatto elevata, si giunge all’intimità, al rispetto e al piacere reciproci. I problemi nascono quando si compensa o si giustifica una carenza a livello funzionale con l’aspetto affettivo, come per esempio quando diamo per scontato che l’altro capirà le nostre intenzioni esclusivamente in virtù del rapporto che ci lega (“Non serve che gli spiego questo, tanto se siamo amici capirà da solo”); oppure quando ci si serve di un’attitudine funzionale per comunicare in un contesto di relazione intimo, come per esempio quando il marito torna a casa e parla ai figli e alla moglie allo stesso modo in cui si rivolge ai dipendenti o ai colleghi nel suo contesto lavorativo.
La soluzione consiste innanzitutto nello scindere questi due ambiti, riconoscendo quali sono i bisogni e le aspettative che vogliamo soddisfare in una relazione, cosa ci serve in quel particolare momento e cosa stiamo chiedendo a quella specifica persona, altrimenti comunichiamo in modo sbagliato. Le incomprensioni e i litigi nascono proprio in virtù della pretesa di aver detto in modo chiaro quello di cui si ha bisogno, mentre non lo si è comunicato apertamente.
A questo proposito è fondamentale il concetto di contatto, con il quale si intende l’entrare in relazione con l’altro in maniera autentica e pulita, che richiede una vera e propria abilità empatica.

Tuttavia, la qualità del contatto non ha nulla a che vedere con il grado di efficacia della comunicazione: due persone infatti, possono avere un elevato livello di contatto tra di loro, ma non essere assolutamente capaci di mettersi d’accordo su questioni pratiche.
Infatti per imparare a comunicare sul serio, tre sono i problemi principali: come creare questo contatto; come superare le difese che lo ostacolano e con le quali ci proteggiamo dagli altri; come riuscire a restare in contatto nelle situazioni problematiche, nelle quali la cosa più facile sarebbe chiudersi per evitarle.
Per poterne uscire è necessario ritrovare uno stato di coscienza centrale, ovvero stare in contatto anzitutto con se stessi per essere in contatto con l’altro. Si tratta di adottare l’equanimità, che non coincide con l’essere privi di sentimenti o di reazioni verso il nostro prossimo, quanto piuttosto con il lasciarsi andare alla propria natura senza giudicarla. Bisogna abbandonare i ruoli stereotipati cui siamo rigidamente ancorati, che ci costringono a rispondere in base alle aspettative altrui, piuttosto che dire quello che vogliamo esprimere veramente. Dunque bisogna superare anche i propri limiti e diventare imparziali con se stessi e con gli altri, senza la paura di essere giudicati.


Tipi di rapporti e ruoli comunicativi

tipi di rapporti e ruoli comunicativi

Un altro aspetto fondamentale della comunicazione è quello che concerne le posizioni che gli interlocutori possono assumere all’interno della relazione: di superiorità, inferiorità, parità, complementarità. Le prime due determinano i cosiddetti rapporti verticali, in cui esiste una gerarchia, mentre le altre stabiliscono i rapporti orizzontali, ove gli interlocutori si trovano allo stesso livello, funzionale o affettivo che sia (P. Baiocchi, D. Toneguzzi, 2002).

Nell’ambito della comunicazione funzionale, ci si potrà rapportare con qualcuno che occupa una posizione superiore alla nostra come il datore di lavoro; che ha un ruolo inferiore, come il dipendente; oppure ricopre una posizione di pari importanza alla nostra come un collega; o con qualcuno a noi complementare, che possiede competenze con le quali può esserci di ausilio rispetto a qualcosa che non siamo capaci di fare da soli.
Nell’ambito della comunicazione affettiva invece, ci si può rapportare, rispettivamente alle stesse posizioni, con: un genitore o una persona che si stima e di cui ci si fida molto, che solitamente ha un ruolo di guida e si prende carico dell’altro fornendogli un punto di riferimento; un figlio, che in questo caso è colui che si affida a chi lo guida; con un amico o un fratello con i quali si ha un rapporto di collaborazione e scambio di competenze; o con un partner, dando vita in modo complementare al rapporto di coppia.
Il problema che può nascere a livello comunicativo, come già accennato, è una sovrapposizione di ruoli che rende impossibile gestire il rapporto in maniera sana.
Ma se si tiene contro dell’esistenza di queste regole e si riconoscono i ruoli che rivestono gli interlocutori, oltre a distinguere i tipi di relazioni che intercorrono tra di loro, si può rendere la comunicazione molto più efficace.

La relazione gerarchica in ambito funzionale richiede che vengano rispettati dei criteri di giustizia e di efficienza, mentre nell’ambito affettivo le regole da rispettare rispondono prevalentemente a criteri di bontà ed empatia. La confusione tra questi due piani è molto comune, come succede ad esempio quando si gestisce un’azienda con parenti o amici e nutriamo delle aspettative nei confronti di coloro con cui abbiamo un rapporto affettivo e pensiamo che questo sia sufficiente per pretendere che facciano tutto quello che vogliamo (“Dato che il capo è mio amico, non c’è problema se gli porto la relazione in ritardo”).
Quando si tende a realizzare uno scopo affettivo con qualcosa che riguarda l’ambito funzionale o viceversa, c’è uno sfruttamento degli aspetti di un piano con altri aspetti che riguardano l’altro, e il passaggio continuo da uno all’altro in modo inadeguato comporta nel tempo un deterioramento del rapporto, sia sul piano funzionale che affettivo.
La soluzione consiste innanzitutto nell’osservare gli aspetti che consentono di distinguere i due livelli di comunicazione e di riconoscerli per quello che sono.

La comunicazione patologica. La vittima, il persecutore e il salvatore

la comunicazione tra vittima e salvatore

Quando un messaggio contiene molti significati possibili o incompatibili tra loro, lascia all’ascoltatore la scelta di interpretarli e dunque possono essere facilmente negati dall’interlocutore. Chi adotta questo tipo di linguaggio ambiguo e indiretto tenta di non comunicare per evitare l’impegno che una comunicazione chiara e diretta comporterebbe altrimenti. Ci sono vari modi per ‘non comunicare’squalificare invalidando quanto comunicato da sé o dall’altro contraddicendosi; cambiare argomento divagando con l’esplicazione di frasi incoerenti o incomplete; ricorrere ad uno stile confuso servendosi di termini che danno adito a chiari segni di fraintendimento.
In ogni caso l’ambiguità nella comunicazione fa sì che non si ottenga mai una situazione chiara, in cui le persone tentano di fare le loro mosse e ripeterle affinchè nessuno lasci il campo e definisca le relazioni per quello che sono.
Questo tipo di comunicazione è cosiddetta indiretta, e rappresenta un mezzo per ottenere degli scopi senza correre il rischio di prendere una posizione reale ed autentica, giocando dei ruoli di potere noti come ruoli comunicazionali nevrotici: di vittimapersecutore e salvatore. La conseguenza nell’adottare questi ruoli è di potenziare all’estremo l’interpretazione soggettiva, per la quale il significato dei messaggi viene attribuito sulla base del carattere, delle proprie inclinazioni, di esperienze passate e di stati d’animo del momento, e il rischio è di deteriorare la relazione facendo si che questa perda di vitalità.
Questo solitamente accade quando si afferma qualcosa di diverso da quello che si vuole, si sente o si pensa, cercando di accaparrarsi un vantaggio sull’altro mediante una manipolazione senza essere disposti ad avere uno scambio o una negoziazione alla pari, nella quale sia l’uno che l’altro rinuncino a qualcosa, ovvero senza voler pagare il prezzo che tale vantaggio garantisce. La comunicazione indiretta consiste essenzialmente nel dire senza dire, ad esempio alludendo, implicando, parlando mediante generalizzazioni, restando vaghi e ambigui. Tuttavia, esiste anche un tipo di comunicazione indiretta inconsapevole, quando si mente perché non si sa bene cosa si vuole e non si è chiari neanche con se stessi, perchè siamo in conflitto rispetto alla soddisfazione di un bisogno piuttosto che di un altro. Allora può succedere che, nonostante si è consapevoli della non veridicità di ciò che si afferma, lo si dice per giustificare un proprio comportamento.

Generalmente la comunicazione indiretta viene utilizzata quando ci sono argomenti scottanti da trattare, ovvero che sono emozionalmente carichi per la persona e che se affrontati, potrebbero generare delle forti tensioni; oppure quando si tratta di chiedere apertamente quello che si desidera, piuttosto che pretendere e aspettare che gli altri soddisfino i propri bisogni senza averlo prima richiesto; o ancora quando si tratta di fare un’affermazione che potrebbe definire una situazione in maniera immodificabile, al contrario di quanto non avvenga usando un linguaggio vago, che lascia sempre aperte tutte le possibilità; quando bisogna avere il coraggio di imporsi con fermezza e dare un ordine all’altro, rischiando di essere troppo autoritari e di perdere la relazione; ed infine quando si sente il bisogno di fare delle critiche all’altro, che spesso prendono la forma di biasimo nei confronti della persona, piuttosto che del suo comportamento. Per questo, nella comunicazione affettiva i messaggi vengono espressi in maniera molto meno esplicita che in quella funzionale.

Nell’ambito della comunicazione indiretta entrano in gioco i ruoli che Stephen Karpman ha chiamato “triangolo drammatico” (1968), che si agiscono inconsapevolmente:

  • la vittima, mediante la provocazione riesce ad evocare una reazione per cui l’altro, al quale ha attribuito l’origine di tutti i suoi errori, la aggredisce;
  • il persecutore, diventato il capro espiatorio, a seguito del senso di colpa nel quale la vittima lo intrappola, si sente attaccato e per difendersi si comporta da carnefice;
  • il salvatore, si attiva nel tentativo di aiutare la vittima, così da sentirsi utile e di vitale importanza, incastrandola così a sua volta in un rapporto di sottomissione.

Si instaura così un circolo vizioso per cui l’atteggiamento arrogante, sarcastico e intimidatorio del persecutore sortisce confusione e paura nella vittima, le cui responsabilità vengono assunte dal salvatore.
Nello specifico, il persecutore valica i confini dell’altro agendo una violenza, ossia trovando i suoi punti deboli e colpendoli per intimidire e prendere potere e controllo sull’altro;

la vittima invece prega l’altro cercando di manipolarlo con richiami di aiuto o atteggiamenti difensivi e costringendolo ad esaudire richieste incolmabili con le sue proteste e lamentele;

il salvatore, che apparentemente si prodiga per l’altro, di fatto lo lega a sé in un rapporto di dipendenza nel quale lui è il più forte.
La nevrosi nel recitare questi ruoli sta rispettivamente nell’inconsapevolezza di negare la propria forza, nascondere le proprie paure e fingere di non avere bisogni.


Tipi di relazioni e stili comunicativi

tipi di relazioni e stili comunicativi

Esistono poi due tipi di relazioni: del tipo io-tu o dialogica e d’oggetto (P. Baiocchi, D. Toneguzzi, 2002); ciò che le differenzia sta nel modo in cui vediamo l’altro e nell’approccio con il quale scegliamo di relazionarci. Nella relazione io-tu l’interazione prevede un dialogo che ha per oggetto la relazione stessa, nel senso che l’attenzione è rivolta all’altro come persona e non come oggetto di scambio. Nella relazione d’oggetto, quando comunichiamo con qualcuno, siamo focalizzati sullo scopo che ci conduce ad ottenere soltanto delle informazioni, e non ci rapportiamo a lui in quanto persona, bensì in virtù della funzione che ricopre. Quando agiamo uno dei ruoli comunicazionali nevrotici, stiamo trattando l’altro come oggetto. Ad esempio chi riesce ad ottenere ragione in una disputa verbale o vendere un auto a un prezzo vantaggioso è molto abile a sfruttare la relazione, non a relazionarsi con l’altro.
Se si vogliono instaurare rapporti che non siano soltanto di natura oggettuale, bisogna tendere all’onestà e contrastare i nostri tentativi nevrotici di falsificazione del sé, cercando di espandere il più possibile il contatto nella relazione. Di certo farlo non è facile, perché ogni volta che entriamo in contatto con qualcuno incorriamo nel rischio di metterci in gioco, scoprirci, passare certi confini, con il timore di essere invasi e di affrontare delle situazioni che in passato ci hanno procurato delle ferite narcisistiche.
Allora il persecutore tende ad evitare le situazioni dove si sente debole e vulnerabile, la vittima quelle in cui debba assumersi responsabilità, e il salvatore quelle in cui potrebbero emergere bisogni personali non soddisfatti. Quello che si fa solitamente è di prevaricare l’altro senza rispettarne i confini, con conseguenti sensi di colpa, oppure di restare prevaricati e di non esprimersi pienamente.

Nelle relazioni io-tu invece questo non accade, perché sono in gioco le essenze più che i ruoli delle persone, ma è necessario che entrambe gli interlocutori siano disposti a comunicare e ricevere i messaggi senza filtri, ovvero senza pregiudizi. Dunque, affinchè si realizzi un clima relazionale efficace, bisogna assumere come presupposto di base che il significato assunto dalle parole non è mai predeterminato per il destinatario. L’efficacia della comunicazione dipende dalla disponibilità ad accettarla per quella che è e dalla qualità della relazione.
Pertanto, per poter adottare una comunicazione onesta e diretta bisogna riconoscere prima che tipo di relazione abbiamo instaurato con l’altro, a seconda che si tratti di:

  • relazioni amichevoli, nelle quali ci sono amicizia e fiducia consolidate del tipo win-win, caratterizzate da un rapporto collaborativo dove si cerca di vincere e far vincere l’altro e dove gli scambi sono di valore secondario al contatto;
  • neutrali, dove non ci sono né amicizia né ostilità consolidate, caratterizzate dall’avvenire di scambi positivi senza intimità con il risultato che si possono avere scambi vantaggiosi senza eccessivi coinvolgimenti;
  • ostili, caratterizzate da un rapporto competitivo del tipo win-lose, in cui si cerca di vincere facendo perdere l’altro (P. Baiocchi, D. Toneguzzi, 2002).

Gli stili per comunicare in maniera sana nei vari tipi di relazione

Il passo successivo è quello di usare lo stile comunicazionale adeguato allo specifico tipo di relazione, infatti ognuno dei tre tipi di relazione presenta diverse possibilità e trappole:

in quelle amichevoli lo stile comunicazionale è di apertura e collaborazione e questo consente di trovare sostegno e riconoscimento recirporco esprimendosi in modo onesto per ciò che si è. Contrariamente si andrà un passo indietro rispetto alla possibilità di approfondimento della relazione;

in quelle neutrali gli scambi avvengono all’interno di una relazione che non presenta legami e non consentendo spazio per coinvolgimenti intimi, possono essere anche molto vantaggiose per quei rapporti che non sono profondi, ma indispensabili. Lo stile comunicazionale è di essere cautamente propositivi senza richiedere contatto, legami e scambi inadeguati rispetto al livello di rapporto esistente. Quello che bisogna fare è proporre micro-obiettivi che possono essere gradualmente aumentati per importanza e quantità, pena la chiusura difensiva da parte dell’altro con la possibilità di perdere il rapporto;

in quelle ostili ognuno cerca di prendere una posizione di forza incarnando ruoli competitivi e vendicativi che non concedono alcun potere contrattuale a chi offre scambi di tipo collaborativo o propositivo, ma che consentono a chi ha la supremazia di approfittarne finché reputate vantaggiose. Lo stile comunicativo adeguato è quello di difendersi pur mantenendo il contatto, senza oltrepassare i confini di intimità dell’altro. Le possibilità che offre sono di imparare a gestire la paura e a difendersi pur restando in una posizione di fermezza. Per difendersi eticamente bisogna conoscere e poter prevedere i comportamenti e le strategie ostili dell’altro, progettando uno scopo personale positivo che tuttavia non crei svantaggi all’altro, ma per il quale gli convenga collaborare. Lo stile comunicativo da usare è di tipo persuasivo, rendendo nota all’altro la strategia manipolativa che sta attuando senza giudizi di valore, esprimendosi con decisione e rispetto, per esempio ripetendo i contenuti dell’altro sotto forma di domanda ed esprimendo in maniera esplicita le emozioni che ne conseguono.
Una tecnica è quella di creare un percorso logico composto da una serie di tappe progressive e consequenziali, che portino gradualmente la persona ad accettare ciò che probabilmente rifiuterebbe se la richiesta fosse effettuata in un’unica battuta. Le prime tappe non esprimono direttamente l’obiettivo finale, pur facendo compiere dei passi in quella direzione, in modo da non generare resistenze, ma una volta accettate divengono una irresistibile premessa ad acconsentire alle tappe seguenti, nelle quali invece l’obiettivo viene dichiarato.
Peraltro ogni volta che si procede in una tappa si formuleranno delle domande per ottenere l’accordo di volta in volta su ognuna, in modo da portare l’altro a dire un chiaro sì (P. Baiocchi, 2002).

Le regole da rispettare per comunicare in maniera sana

regole per comunicare in maniera sana

  • avere chiaro cosa voglio dire e cosa voglio ottenere
  • ascoltare attivamente
  • esprimere in maniera autentica pensieri ed emozioni
  • essere assertivi, ovvero parlare a qualcuno e non di qualcuno
  • ripristinare l’uso del linguaggio emotivo

Quando c’è un problema di tipo relazionale, c’è sempre un disagio mal gestito con l’altro o dell’altro, a causa del quale i pensieri e le emozioni mettono in difficoltà e in imbarazzo gli interlocutori, che rendono sempre più difficile il contatto e che talvolta conduce a un deterioramento del rapporto.
La soluzione sta nell’ascoltare attivamente ed esprimersi autenticamente.
L’ascolto è un processo attivo e intenzionale che oltre a portare a conoscenza i contenuti della comunicazione, consente di comprendere e rispettare l’altro come persona, entrando in contatto con quello che sente e accogliendolo senza giudicare.

Le tecniche per un ascolto attivo sono:

  1. non parlare e non fare, ovvero fare da testimone all’altro mentre si esprime facendo dei brevi commenti che indicano che si è interessati a quanto viene detto con espressioni del tipo: “Mm-hmm; ah, ah capisco; già; davvero?”
  2. invitare, stimolando e incoraggiando la comunicazione dell’altro dicendo: “Mi sembra che sia molto importante per te; raccontami; dimmi; cosa vuoi dire?; mi puoi spiegare meglio; mi piacerebbe se tu me ne parlassi”
  3. rispecchiare, ovvero verbalizzare lo stato d’animo dell’altro, prestando attenzione a quello che si cela sia dietro le espressioni verbali che non verbali, con frasi del tipo: “capisco, devi essere molto arrabbiato; mi rendo conto che hai patito molto ad aspettarmi”

Per esprimersi in modo onesto bisogna ascoltare le proprie intuizioni ed emozioni dicendo semplicemente la verità, in modo che l’altro non possa restare ambiguo e sia costretto a responsabilizzarsi in merito a quanto detto. Comunicare sinceramente le proprie opinioni deve mirare allo scopo di informare l’altro senza usare ciò che si sta comunicando per piegarlo ai propri voleri e alle proprie aspettative, lasciandogli la libertà di scegliere cosa fare con l’informazione ricevuta.

Quando invece le emozioni e le opinioni personali vengono dichiarate con l’intento di manipolare, controllare e prendere potere sull’altro, la struttura linguistica con la quale vengono espresse è riconoscibile da espressioni specifiche: usano la seconda persona (tu); vogliono imporre qualcosa (devi); vengono spacciate come verità assolute (ovviamente); limitano la libertà di scelta dell’altro (se non lo fai); vogliono colpevolizzare l’altro e scaricare la responsabilità (a causa tua).
Quando invece vengono espresse sulla base di un’altra struttura, diventa possibile instaurare una relazione rispettando i confini dell’altro: in prima persona (io); vogliono proporre, offrire o informare qualcosa (vorrei); vengono espresse come verità soggettive e personali (secondo me); riguardano scelte personali nella propria sfera d’azione; dichiarano una completa assunzione di responsabilità (decido io).
Naturalmente bisogna anche valutare a chi stiamo esprimendo certe emozioni e che tipo di rapporto ci lega a quella persona, per verificare se l’altro è in grado di sostenere la verità e se non mettiamo a rischio il rapporto (P. Baiocchi, 2002).

Infine, quello che più conta è cercare di essere creativi nella comunicazione, ovvero introdurre degli elementi nuovi per cambiare qualcosa, come nel caso in cui state aspettando un amico molto ritardatario e invece di lamentarvi invano come fate sempre, gli dite: “Caspita come sei arrivato presto stasera. Cosa ti è successo?”. Per quanto un intervento del genere possa essere paradossale, è un modo che farà sentire l’altro sorpreso e confuso e che magari lo indurrà a chiedere: “Cosa vuoi dire?”. Innescare una risposta simile permette di dare avvio ad una conversazione diversa, mai affrontata prima, per cui a questo punto, per esempio, potreste rispondere: “Non so di che parli, mi sembrava solo che fossi arrivato prima del solito”.
Una volta che la comunicazione cambia è possibile trasformare anche il rapporto, perché molto probabilmente l’altro è obbligato a considerare il suo comportamento da un altro punto di vista ed è possibile che le convinzioni per le quali crede che sia inevitabile fare tardi vengano meno, al punto di cambiare atteggiamento.

In sostanza si tratta di allenarsi ad usare un altro linguaggio, che è quello dell’intuizione e della sensibilità delle nostre menti non verbali.

Comunicare assertivamente per essere efficaci

comunicare assertivamente per essere efficaci

Anzitutto occorre costruire un messaggio in prima persona, ovvero parlando di sé in termini di autorivelazione di idee, emozioni, intenzioni e comportamenti propri, dei quali ci si assume la responsabilità già per il solo fatto di esprimerli. In secondo luogo, bisogna parlare all’altro e non dell’altro, ovvero comunicare qualcosa che riguarda noi e non piuttosto l’atteggiamento dell’altro, perché solo in questo modo è probabile che l’altro ci capisca, senza sentirsi attaccto. Per farsi capire in modo assertivo bisogna descrivere oggettivamente il fatto o il comportamento, dunque restando il più aderenti possibile a quello che è accaduto; passare a descrivere l’effetto o le conseguenze che l’avvenimento ha provocato e solo successivamente parlare del vissuto, ossia di quello che si è sentito quando l’altro agisce un determinato comportamento. Una volta spiegato perché quel comportamento è inaccettabile per noi, bisogna lasciare spazio alla reazione dell’altro, ascoltare e comprendere, riformulando ciò che l’altro ha da dire. Solitamente quello che impedisce di esprimersi chiaramente è proprio il timore della reazione dell’altro, che potrebbe procurare disagio e potrebbe far sentire rifiutati.
La comunicazione assertiva si caratterizza per il fatto di essere onesta, diretta e rispettosa dei diritti comunicazionali, che sono: essere sicuri di potersi esprimere; identificare i messaggi manipolativi; saper riconoscere le proprie modalità non assertive di comunicazione; sapere cosa accettare e cosa rifiutare. Comunicare con assertività significa assumersi la responsabilità di esprimersi, ovvero il rischio di sopportare e gestire le reazioni degli altri rispetto a ciò che diciamo.

Mentre l’inefficacia di una comunicazione patologica è data dall’assunzione di ruoli comunicazionali nevrotici, dalla comunicazione indiretta e disonesta, da una relazione di tipo oggettuale e dai pregiudizi; la comunicazione per essere sana richiede un tipo di relazione io-tu, una comunicazione dialogica, onesta e diretta, che metta l’attenzione sugli aspetti non verbali del linguaggio e soprattutto sulla qualità della relazione.

Riferimenti:
P. Baiocchi, D. Toneguzzi, La comunicazione affettiva e il contatto umano, Ed. IGT, Trieste, 2002

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